«Solo il 4 per cento delle Doc e delle Docg italiane contengono la varietà in purezza, e nessuna Igt ha il vitigno al 100 per cento. Se si aggiungono i vini da tavola si deduce che l’enologia italiana è in gran parte formata da un “assemblaggio di vitigni” ed è uniforme, anche per i tagli con i vini fuori zona e di annate diverse. C’è bisogno di terroir, di autoctono, per differenziarsi e vincere la sfida con il mercato globale». La ricetta di Mario Fregoni, dell’Università Sacro Cuore di Piacenza, ha messo d’accordo ricercatori, tecnici ed operatori del settore che hanno partecipato al workshop “La viticoltura italiana nello scenario internazionale“ – che si è tenuto a Firenze, organizzato dall’Associazione italiana delle società scientifiche agrarie (Aissa), in collaborazione con l’Arsia (Agenzia regionale per lo sviluppo e l’innovazione nel settore agricolo e forestale della Regione Toscana), l’Accademia dei Georgofili, e l’Università di Firenze – dal quale è emersa la necessità di incrementare la sinergia fra produzione, commercializzazione e ricerca, veri e propri pilastri per un rilancio della viticoltura italiana.
«Il mondo del vino sta sicuramente attraversando un momento di flessione – ha ricordato Paolo Fantozzi, presidente della Società italiana di Scienze e Tecnologie alimentari –. La ricetta per superare questa fase di empasse e rilanciare l’intero comparto non può che essere una attenzione particolare, ancor più che in passato, alla qualità del prodotto, a garanzia di un consumatore sempre più esigente. E’ necessario diversificare le produzioni nel segno della tipicità, e non cadere nel rischio dell’omologazione».
«Questo workshop – ha sottolineato Michele Stanca, presidente Aissa – ha rappresentato il primo esperimento per mettere a sistema i problemi attuali di mercato e di tecniche agronomiche moderne, le emergenze di tipo fitopatologico sino alla trasformazione, facendo interagire le diverse competenze e professionalità».
«Proprio in questo momento di difficoltà del settore – sostiene l’Arsia – vi è consapevolezza che la ricerca ed il trasferimento dell’innovazione sono componenti determinanti per offrire agli operatori gli strumenti idonei per superare le difficoltà ed accrescere la competitività».
Ha invece insistito sulla necessità di una maggiore managerialità da parte delle imprese vitivinicole Leonardo Casini, del Dipartimento di economia agraria dell’Università di Firenze, che ha sottolineato come un marketing strategico garantirebbe una migliore distribuzione e commercializzazione del prodotto, così come una maggiore stretta collaborazione fra enti pubblici e produttori sarebbe fondamentale per affrontare le sfide del futuro. Altrimenti sarà il mercato a fare la selezione con una naturale penalizzazione di aziende, le più piccole, che avrebbero invece potuto mantenere il proprio ruolo sul mercato.
Tra i temi più rilevanti affrontati nel corso dei lavori, poi, la gestione del vigneto con la riscoperta dei valori di una viticoltura tradizionale che era stata via via abbandonata in favore di una meccanizzazione diffusa e non sempre adatta ai luoghi di produzione. E’ stata rilevata l’importanza del recupero delle vecchie sistemazioni dei vigneti su terrazze, in cui l’interazione fra coltivazione e paesaggio era espressa al massimo livello, con soluzioni che, naturalmente, consentano un agevole movimento dei mezzi meccanici, riducano i deflussi superficiali delle acque e assicurino la stabilità delle pendici. Tra i problemi fondamentali segnalati, la gestione del suolo e la necessità di prevenirne la degradazione e l’impoverimento. «L’inerbimento – ha spiegato Marcello Pagliai, dell’Istituto per lo studio e la difesa del suolo di Firenze – rappresenta una tecnica di salvaguardia del suolo che deve essere incentivata: l’erosione da livellamento e da scasso per la realizzazione di nuovi impianti, ad esempio, in caso di piogge violente può portare ad una perdita di suolo di 500 tonnellate per ettaro». La ricetta per una gestione corretta del vigneto? «Non esiste una vera e propria ricetta – spiega Pagliai – ma delle linee di comportamento ottimale che consistono nell’impiego di macchinari meno potenti ed invasivi e nell’evitare coltivazioni intensive, tutto, naturalmente, in funzione del tipo di suolo e di prodotto. Per questo c’è la necessità di una più profonda conoscenza del suolo e della disponibilità di banche dati aggiornate su cui modellare gli interventi e anche di una maggiore sensibilizzazione di istituzioni, tecnici ed agricoltori per l’utilizzo di tecniche atte al mantenimento del terroir e del paesaggio che, per il nostro Paese, rappresenta una vera e propria risorsa culturale».
Infine, tema di grande importanza per la viticoltura, quello della fitopatologia e delle emergenze fitoiatriche, settore di ricerca in cui l’Italia – ha sottolineato Giovanni Martelli del Dipartimento protezione delle piante dalle malattie, dell’Università di Bari – è all’avanguardia. Per quanto riguarda l’impiego di fitofarmaci è impensabile – ha detto Martelli – farne completamente a meno ma è invece imprescindibile ridurre i trattamenti e alternare i prodotti; fondamentale, infine, la prevenzione per altre emergenze come la flavescenza dorata e le virosi, per le quali esiste, appunto, solo questo mezzo, attraverso il miglioramento del livello sanitario delle produzioni vivaistiche>>. Per Attilio Scienza, del Dipartimento di produzione vegetale dell’Università di Milano: «In Italia siamo leader in tutti gli argomenti affrontati nel workshop – ha detto – ma siamo capaci solo a sommare queste conoscenze anziché interagire: è necessario invece trovare una sinergia profonda per migliorare la qualità».
Franco Cervelin