Vino tricolore vale 14mld di euro. Export e aggregazione per moltiplicare il valore

Il vino italiano rappresenta una delle poche eccezioni positive di fronte alla crisi globale: “vale” quasi 14 miliardi di euro l’anno con l’indotto, mantiene il primato tra i Paesi esportatori con una quota del 22 per cento del mercato mondiale e le vendite oltreconfine di bottiglie tricolori a fine 2013 potrebbero toccare per la prima volta i 5 miliardi (+9 per cento), stabilendo un nuovo record storico. Eppure il settore, che già ora si candida a fare la differenza nel lento processo di ripresa dell’Italia, può crescere ancora di più. Lavorando su una maggiore aggregazione della filiera. E’ quanto emerge dal VI Forum vitivinicolo nazionale, “Più forte la filiera, più forti gli agricoltori”, organizzato dalla Cia-Confederazione italiana agricoltori a Orvieto. Da un’analisi confederale, viene fuori ancora una volta, come dato strutturale che si replica in tutti i comparti -sottolinea la Cia- che la dimensione media inferiore rispetto agli standard europei dell’impresa agricola italiana (7,9 ettari contro 12,6) è un “handicap” rilevante, soprattutto in una fase in cui i consumi nazionali stagnano e i mercati stranieri costituiscono l’unica chance per aumentare i volumi di vendita. Questo è ancora più vero per il pianeta del vino, per due motivi: da una parte, i gruppi italiani a misura globale oggi sono per lo più cooperativi, mentre la maggior parte delle aziende produttrici non sono dimensionate per sostenere efficacemente i processi di internazionalizzazione; dall’altra il settore ha la necessità di spingere ancora di più l’acceleratore sull’export, visto che gli acquisti domestici continuano a segnare il passo. In meno di 40 anni si è perso oltre il 60 per cento del consumo interno e lo stesso 2013 chiuderà i battenti con il segno meno: nei primi nove mesi dell’anno le vendite di vino nella Gdo sono già scese del 6 per cento in volume e, continuando così, l’anno chiuderà sotto i 40 litri pro capite (erano 110 litri a persona negli anni Settanta).

Export non per tutti – E’ chiaro quindi che, con questa situazione del mercato italiano, bisogna fare uno sforzo aggiuntivo sul fronte delle esportazioni di vino, coinvolgendo anche tutte quelle migliaia di aziende che adesso non riescono ad arrivare oltreconfine, o lo fanno solo marginalmente, perché con la loro “taglia” non hanno la forza per agganciare i mercati stranieri, per investire in marchi, forza vendita e reti di distribuzione. Ecco perché bisogna costruire una maggiore forza contrattuale e “fare sistema”: secondo i dati della Cia, già oggi la quota di imprese che esprimono un miglioramento della propria competitività all’estero grazie a processi aggregativi di filiera va dal 20 per cento nel caso delle micro imprese a oltre il 30 per cento nel caso delle medio-grandi. Per questo è doveroso spingere verso l’aggregazione tra le imprese, promuovendo allo stesso tempo l’integrazione delle filiere per arrivare a ottenere equilibri equi e responsabili tra agricoltori, trasformatori e distributori -evidenzia la Cia-. Solo sfruttando pienamente tutti gli strumenti a disposizione, dalle Op (Organizzazioni di produttori) alle Oi (Organizzazioni interprofessionali), dalle reti d’impresa ai Consorzi di tutela, ci si può confrontare con maggiore forza sui mercati stranieri che sono sempre più concorrenziali, con 40 gruppi vitivinicoli che oggi controllano quasi il 40 per cento del fatturato globale.

L’unione fa la forza – Insomma, è l’aggregazione che crea maggiore valore aggiunto lungo tutto la filiera -puntualizza la Cia durante il convegno-. Vuol dire, per esempio, semplificare e velocizzare logistica, costi e burocrazia, offrire etichette di qualità a prezzi competitivi senza subire “ricatti” dai buyer, accedere e ampliare la promozione e il marketing. E soprattutto significa fare massa critica per rafforzare la presenza all’estero non solo delle Doc, Docg e Igt, ma anche di tutto quel patrimonio di varietà autoctone finora non valorizzate. Gli strumenti sono tanti, e la riforma della Pac dà loro una nuova centralità che non può essere sprecata. Innanzitutto ci sono le Op, il cui ruolo è fondamentale per accelerare i processi di aggregazione della fase produttiva, rendendo sempre più protagonisti i vitivinicoltori. Solo in questo modo è possibile superare i limiti del sistema agroalimentare italiano, dalle piccole dimensioni fino all’elevata dispersione territoriale. Ovviamente le Op non vogliono essere alternative alle coop, ma possono essere un ulteriore strumento in sinergia con il sistema cooperativo. Un altro strumento importante è sicuramente quello delle reti d’impresa (anche nella forma di ATI) che, oltre a migliorare la redditività, consentono un più agevole accesso al credito e migliorano la capacità strategica e di relazione grazie alle maggiori risorse messe a sistema -aggiunge la Cia-. Lo stesso vale per le Oi, luogo della programmazione contrattualizzata del prodotto in ogni filiera: da un lato hanno il compito di regolare produzione e caratteristiche qualitative, dall’altro migliorano la trasparenza e forniscono indicazioni sulla formazione del prezzo, compreso nelle relazioni con la Gdo. Nel settore vitivinicolo, per esempio, si può pensare alla strutturazione di più organismi a livello territoriale e/o alla formalizzazione dei luoghi dove si definiscono accordi quadro.

Consorzi – Infine, ci sono i Consorzi di tutela, che restano il fulcro organizzativo delle strategie di qualità regolamentate legate all’origine e alla tipicità dei prodotti, svolgendo funzioni primarie come la gestione del disciplinare, la vigilanza sull’uso del marchio, la promozione e la programmazione. Ma oggi -emerge dal convegno- occorre un cambio di rotta e un salto di qualità, risolvendo il problema urgente della rappresentatività dei Consorzi. Bisogna, cioè, assicurare la partecipazione effettiva di tutte le componenti imprenditoriali; rivedere i pesi tra aziende utilizzatrici del marchio, componenti effettive della filiera e strutture di servizio; far passare il principio che è il prodotto che sostiene la maggior parte dei costi. Solo consolidando le diverse forme di collaborazione della filiera si moltiplica davvero il valore del nostro vino, anche all’estero, dove l’appeal delle nostre bottiglie è già evidente nei numeri, ma resta suscettibile di forte crescita. Puntare sull’agricoltura, sulla terra, sui prodotti d’eccellenza come il vino, può farci uscire dalla crisi. Ma per tornare sulla via dello sviluppo -conclude la Cia- la nostra vera forza è stare insieme.

 Partecipanti – I lavori del VI Forum vitivinicolo sono stati aperti da Domenico Brugnoni, vicepresidente nazionale Cia. Dopo i saluti di Antonio Concina (sindaco di Orvieto), di Giorgio Mencaroni (presidente Unioncamere Umbria) e di Giampiero Rosati (Cia Orvieto), è stato il turno della relazione introduttiva di Domenico Mastrogiovanni (Dipartimento Sviluppo agroalimentare e Territorio Cia). Al dibattito sono intervenuti Giovanni Dubini (coordinatore Gie vitivinicolo Umbria); Francesco Ferreri (vicepresidente Assovini Sicilia); Carlo Ricagni (Commissione Paritetica Moscato d’Asti); Ruenza Santandrea (presidente Gruppo Cevico); Stefano Zanette (presidente Consorzio Prosecco Doc); Domenico Zonin (presidente Unione Italiana Vini); Marco Caprai (presidente Confagricoltura Umbria); Riccardo Cotarella (presidente Assoenologi); Fernanda Cecchini (assessore Agricoltura Umbria) e Milena Battaglia del ministero delle Politiche agricole. Le conclusioni sono state affidate a Dino Scanavino, vicepresidente vicario nazionale Cia.

   

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