La zootecnia non è responsabile dell’aumento dei gas climalteranti in atmosfera

di Roberto De Vivo e Luigi ZicarelliAccademia dei Georgofili

FIRENZE – A differenza di molti studi e di quanto i media vanno diffondendo che considerano solo i gas climalteranti prodotti dalle attività zootecniche sul cambiamento climatico nel contributo dato recentemente alle stampe viene valutata la quantità di CO2 prodotta dagli animali e quella equivalente derivante, nel corso di dieci anni, dal metano dell’attività ruminale, ma anche quella fissata nei vegetali utilizzati per l’alimentazione degli animali di allevamento.

Dall’elaborazione effettuata emerge che in Italia la CO2 fissata dai vegetali, prodotti sia in Italia sia all’estero, destinati all’alimentazione degli animali è superiore di circa  il 10% rispetto a quella equivalente emessa dagli animali allevati e dalle attività zootecniche ad essi correlate. Ne deriva che, contrariamente a quanto sostenuto da molti media, gli animali di allevamento contribuiscono a ridurre la CO2 in atmosfera.

Sono state quantificate le emissioni dovute alla respirazione e quelle relative alle fermentazioni ruminali e alle deiezioni di tutti i capi delle specie allevate in Italia, alla loro gestione e al loro spandimento, comprese le deiezioni rilasciate dagli animali al pascolo. È stata poi calcolata l’anidride carbonica (CO2) fissata dalle principali colture di interesse zootecnico tramite il “Ciclo di Calvin-Benson” che è stata sottratta dall’atmosfera. Da dati statistici si è risaliti alla quantità di foraggi (ISTAT) e cereali (ASSALZOO), prodotti nel nostro Paese e all’estero, impiegati in Italia.

Dalla quantità prodotta di foraggi e cereali si è risaliti alla biomassa vegetativa tramite i vari indici di raccolta, calcolando anche la parte ipogea lasciata al suolo come residuo colturale. Si è tenuto conto, inoltre, delle emissioni che provengono dalla coltivazione delle specie vegetali per la lavorazione del terreno, la produzione di fertilizzanti e fitofarmaci, l’elettricità, i combustibili e il funzionamento delle macchine.

Dai risultati emersi, si può affermare che la zootecnia in Italia, escluse le attività legate al trasporto e alla lavorazione di prodotti come carne e latte, non contribuisce all’aumento delle emissioni di gas serra in atmosfera, ma le diminuisce, anche se di poco, perché il saldo tra le quantità di CO2eq prodotte dal bestiame e quelle fissate nel foraggio utilizzato per la loro alimentazione è nettamente (+10%) a favore di quest’ultima. Se gli alimenti per il bestiame non sono importati, basterebbe aumentare la superficie adibita alla coltivazione di erba medica di 2,6 volte per eguagliare l’equivalente di CO2 prodotta dagli allevamenti e quelli fissati nel foraggio.

Il contributo è stato arricchito dall’esame di una singola azienda di media dimensione (150 capi in lattazione) che ha evidenziato che la somma della CO2 immagazzinata dai foraggi prodotti in Italia e all’estero forniscono un valore del 6% superiore a quello prodotto dalle attività zootecniche.

Dai dati elaborati, emerge che in Italia la CO2 fissata e sottratta dall’atmosfera dalle foraggere coltivate e importate per nutrire gli animali d’allevamento, neutralizza la somma di CO2eq emessa per le lavorazioni agricole, le fermentazioni ruminali e la gestione del letame. L’’attività zootecnica, senza tener conto del trasporto e della lavorazione secondaria di latte, carne, ecc. può essere considerata equilibrata e quindi la sua influenza andrebbe opportunamente corretta nella valutazione delle emissioni di gas serra. Il risultato ottenuto è al netto di tutte le emissioni che includono  i processi agricoli e quelli relativi alla produzione di fertilizzanti e pesticidi, elettricità, carburante e il funzionamento di macchinari. In questo modo è stato possibile calcolare il contributo netto grazie alla sottrazione dell’anidride carbonica delle colture foraggere e cerealicole nel settore zootecnico.

Questa conclusione è tanto più interessante se si considera che l’emivita dell’anidride carbonica è maggiore di quella del metano e del protossido di azoto. Di conseguenza per mitigare l’effetto serra è più efficiente in termini di tempestività, soprattutto se si ritiene che la CO2 prodotta da diverse fonti (carbon fossile e petrolio) duri più a lungo nell’atmosfera rispetto al metano e che quella prodotta dalle fonti industriali non si ricicla ma si aggiunge a quella già presente in atmosfera. I risultati di questo studio sono in accordo con quello di Chiriacò e Valentini (2021), che dimostrano che il settore agricolo, da un lato genera le emissioni di gas serra che dall’altra sono riassorbite, soprattutto con opportuni sistemi sostenibili di gestione, grazie all’attività di fotosintesi e biodiversità del suolo che rappresentano un importante dissipatore di carbonio che permette di raggiungere la neutralità carbonica. Tutti gli altri settori (energia, costruzioni, trasporti) possono impegnarsi a ridurre le loro emissioni e ridurle gradualmente a zero, ma non hanno la possibilità di rimuovere l’eccesso di CO2 già presente nell’atmosfera.

La letteratura definisce, infatti, questi gas “gas stock” perché si sommano sempre. Il metano ha una durata inferiore: circa 10 anni. Ciò significa che dopo un decennio non c’è più. Si attiva un processo – e questo rende davvero il metano molto diverso dagli altri gas – che distrugge il metano, chiamato idrossi-ossidazione (Frank Mitloehner: Cattle, climate change and the methane …www.alltech.com › frank-mitloehner). Alla velocità con cui viene emesso, viene distrutto. Ciò rende il metano molto diverso dagli altri gas.

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