Consumo di carne è sostenibile grazie alle nuove tecnologie. Pulina: in 30 anni calo 50% emissioni C02 per carne suina e avicola, – 30% per carne bovina

pulina

FIRENZE – Intervista all’Accademico dei Georgofili Giuseppe Pulina, ordinario di zootecnia all’Università di Sassari e Presidente dell’Associazione Carni Sostenibili. (di Giulia Bartalozzi – Georgofili.Info)

Professore Pulina, innanzitutto congratulazioni per la sua recente nomina tra i 1000 Top Animal Scientist del mondo.

E’ un importante riconoscimento che conferisce autorevolezza al suo lavoro e in particolare all’Associazione Carni Sostenibili, di cui è Presidente, che ha tra gli obiettivi primari quello di fornire informazioni attendibili ed equilibrate su salute, alimentazione e sostenibilità.

Grazie, ma non sono solo. Per fortuna una folta pattuglia di scienziati dei settori zootecnico e veterinario è stata inclusa in questa graduatoria (25 in totale) e ben 63 animal scientist sono stati inclusi nel top 2%  del ranking compilato dal database dell’Esevier pubblicato nell’ottobre 2021. Molti di questi Colleghi sono Georgofili, a conferma della qualità scientifica degli Accademici.

Come riporta il sito di Carni Sostenibili , secondo gli ultimi dati dell’Osservatorio permanente Censis-Ital Communications sulle Agenzie di comunicazione, in Italia circa 14 milioni gli italiani usano Facebook come fonte di informazione e 4,5 milioni si informano esclusivamente sui social network. Ma non solo, secondo lo Science Post, il 70% degli utenti che leggono notizie online si limita al titolo.
Stando così le cose, il rischio di cadere vittime di bufale e fake news sul consumo di carne diventa sempre più concreto. Quali sono le più comuni? A suo giudizio i consumatori italiani sono così sprovveduti?

Le fake news più comuni riguardano la sostenibilità ambientale delle produzione della carne (una vacca inquina più di un auto, i bovini sono la principale fonte di impatto ambientale) e la salubrità dei prodotti carnei (la carne rossa provoca il cancro, consumare carne porta all’obesità), informazioni non solo infondate, ma pericolose per la salute pubblica e per lo stato nutrizionale delle persone appartenenti soprattutto alle fasce estreme (bambini, adolescenti e anziani) e deboli (soggetti fragili e convalescenti) della popolazione. I consumatori italiani per fortuna “si bevono poco” questa battaglia martellante, portata avanti sfortunatamente non solo dai social, ma anche dai legacy media (soprattutto quotidiani) per i quali veganesimo e antispecismo sono temi “cool”. La stragrande maggioranza degli italiani consuma carne in maniera responsabile e la considera parte integrante della dieta mediterranea, per fortuna.

Entro la fine di questo anno entrerà completamente in applicazione il nuovo regolamento animale conosciuto come “Legge sulla sanità animale”. Ci può spiegare quali sono i suoi punti principali e quali ricadute avrà sia per gli allevatori che per i consumatori?

Il Regolamento (UE) 2016/429 del Parlamento europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016 relativo alle malattie animali trasmissibili e che modifica e abroga taluni atti in materia di sanità animale («normativa in materia di sanità animale»), è un testo molto complesso che, con i regolamenti applicativi, sta trovando in questi giorni compimento in Italia. Si tratta di un testo unico, che sintetizza le disposizioni in tema di salute animale e semplifica e uniforma le procedure relative. Interessa tutte le specie animali e pone l’allevatore (o il detentore degli animali) al centro della catena delle responsabilità della salute animale e pubblica, lo obbliga ad adottare, in stretto rapporto con il sistema veterinario pubblico e privato, tutti gli strumenti innovativi (sensoristica, digitalizzazione delle informazioni, ricette elettroniche e inventari) per garantire il principio della salute globale (“One Health”). Per i consumatori (e i cittadini) centrale resta il tema della sicurezza sanitaria degli allevamenti e dei loro prodotti e la lotta all’antimicrobico resistenza, tutti aspetti normati dalla legge.

Questo regolamento può anche essere considerato un passo ulteriore verso il benessere animale, tema molto importante e presente nei recenti studi di zootecnia, nonché negli allevamenti moderni. Può spiegarci come gli allevamenti di nuova generazione hanno permesso di superare concretamente il concetto negativo di “intensivo”?

L’intensivizzazione dei processi produttivi è centrale per tutte le attività umane, In sostanza si tratta di produrre di più a parità di input, attraverso una migliore organizzazione dei fattori (più intelligenza e organizzazione), con conseguente minore impatto per unità di prodotto. L’intensivizzazione in zootecnia ha comportato negli ultimi 30 anni, per limitarci ai gas climalteranti, una riduzione del 50% della CO2 emessa per litro di latte, del 30% per kg di carne bovina e di oltre il 50% per kg di carne suina e avicola. Questa riduzione ha riguardato anche le emissioni totali che in Italia si sono costantemente ridotte di quasi l’1% per anno, sempre negli ultimi 30 anni. Pertanto, il concetto di intensivo è da intendersi come “knowledge intensive” e non con lo stereotipo di allevamenti affollati in cui gli animali sono maltrattati. Le nuove tecnologie consentono di applicare i concetti di intensivo anche agli allevamenti plen air per i quali la transizione digitale può portare ad ottenere alte produzioni anche in condizioni di semiconfinamento o addirittura di brado, come dimostrato dalle esperienze pluridecennali della Nuova Zelanda. Infine, confinato e protetto sono anche sinonimi di benessere animale: se poste a scegliere, le vacche preferiscono alimentarsi alla corsia e ripararsi dal caldo e dal freddo in comode stalle, piuttosto che arrampicarsi nei pendii alla ricerca di alimento, fuggire a mosche e tafani, infrattarsi per difendersi dalla calura o dal gelo e vagare in cerca di una fonte di acqua. Ovviamente questi comfort possono essere garantiti anche in un allevamento brado, ma questo significa che tale allevamento si intensivizza, ed ecco spiegato l’equivoco.

Il conflitto tra Russia e Ucraina ha pesato molto sulle importazioni da quei Paesi di cereali utilizzati largamente per nutrire i nostri animali. In un’intervista al maiscoltore Marco Pasti, pubblicata recentemente su Georgofili INFO, è stato evidenziato come il fatto che l’Italia abbia interrotto anni fa certe produzioni per le quali era autosufficiente sia stato il frutto di deliberate scelte strategiche, che oggi si sono rivelate controproducenti. Secondo Lei c’è margine per recuperare? 

In vent’anni siamo passati dall’autosufficienza a una fortissima dipendenza (60%) per l’approvvigionamento della principale fonte di amido per la mangimistica, il mais. Teniamo conto che i maiscoltori italiani sono bravissimi, se assistiti dalle nuove tecnologie, a produrre mais anche con gli ibridi tradizionali (in alcune realtà di sfiorano i 200 q di granella ad ettaro). Il problema risiede nel prezzo che per anni è calato fino a livelli non compatibili con un’economia di coltivazione. ASSALZOO da diversi anni cerca di strutturare contratti di filiera in modo tale da garantire un prezzo congruo ai coltivatori, ma la recente fiammata dei prezzi e l’incertezza sugli approvvigionamenti futuri potrebbero creare il clima giusto per poter strutturare una filiera nazionale che riporti i livelli di approvvigionamento a livelli di sicurezza.

Sarà possibile ancora produrre carni sostenibili con questa crisi?

La crisi in atto ha portato il Governo (e il Parlamento) a varare una serie di misure che incentivano la produzione di biogas. Il fatto positivo è che dalle deiezioni animali, secondo i calcoli del CRPA , possono essere ottenibili 3-4 miliardi di mc di biometano (il 10% dell’attuale import dalla Russia); quella negativa è che il Decreto Energia incentiva l’impiego dei sottoprodotti agroindustriali direttamente per la produzione di biogas, privando il settore mangimistico di una preziosa fonte di nutrienti. Su questo aspetto, la Commissione Zootecnia dell’Accademia ha in animo di stendere un report completo. Le prime analisi mostrano che almeno 1 milione di tonnellate di sostanze edibili (in materia secca), di cui almeno 110 mila tonnellate di proteine e 30 mila tonnellate di polifenoli (preziosi antiossidanti) potrebbero finire nei digestori, peggiorando la dipendenza dalle materie prime importate. Uno spreco e un danno enorme per l’economia circolare della zootecnia italiana.

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