Tracciabilità del Brunello: è il metodo degli ‘antociani’ il più attendibile e sicuro

Venerdi 24 maggio, giornata fredda e ventosa di una primavera che stenta ad affermarsi, ha visto a raccolta la stampa italiana a Montalcino. Lo scopo era fare il punto sulla tracciabilita’ del Sangiovese di Brunello, lavoro di ricerca commissionato nel 2008 dal consorzio del Brunello all’Istituto di San Michele All’Adige. La tracciabilita’ equivale a garantire al consumatore che cio’ che trova in bottiglia sia proprio cio’ che si aspetta sulla base dei disciplinari di produzione. E’ quindi faccenda molto importante, tema caldo anche alla Comunita’ Europea, soprattutto, come sostiene anche il presidente del consorzio del Brunello di Montalcino Bindocci Fabrizio, per quei vini che contribuiscono a tenere alta l’immagine dell’Italia nell’enologia mondiale e che sul mercato internazionale hanno il loro sbocco più importante, proprio come il Brunello.

Sulla strada della tracciabilita’ molto hanno fatto anche i Consorzi – Come ricorda il presidente di Federdoc Ricci Curbastro “Non sono passati nemmeno dieci anni, era l’ottobre 2003 dall’inizio dei piani di controllo sulla filiera del vino e ciò di cui si è parlato oggi a Montalcino era qualcosa di futuribile soltanto qualche anno fa. Il mondo del vino ha saputo affrontare la crisi perché ha fatto un passo avanti rispetto ad altri settori. Da Montalcino oggi è emerso un modello che può essere seguito anche da altri territori e altre denominazioni, un benchmark da utilizzare da chi crede nella tutela delle eccellenze italiane”. Il Consorzio del Brunello, prima di altri, si è posto il problema della tracciabilità del prodotto e nel 2008  ha affidato un progetto di studio dei metodi per la tracciabilità varietale e geografica del Brunello di Montalcino a Fulvio Mattivi, coordinatore del Dipartimento Qualità Alimentare e Nutrizione presso il Centro Ricerca ed Innovazione della Fondazione Edmund Mach Istituto di San Michele all’Adige, riconosciuto anche dal Ministero e dalla Repressione Frodi. Il caso Brunello rappresenta un unicum nel settore della tracciabilita’, un precedente che contribuisce allo sviluppo di un metodo scientifico che dovra’ poi essere ufficializzato per poter essere riprodotto. Offrire agli enti che a livello internazionale presiedono al controllo di qualità, una metodologia scientifica per garantire la sicurezza della provenienza, è uno strumento molto forte ed efficace a supporto dei produttori e del territorio, nonché un attestato di credibilità ed autorevolezza.

Antociani – In buona sostanza e’ emerso dalle evidenze sperimentali che sia il metodo del profilo antocianico, legato cioe’ alla materia colorante del vino, cui si affianca per una ulteriore definizione territoriale quello degli isotopi stabili, a far dormire sonni tranquilli ai produttori ma soprattutto al consumatore, indicando la presenza del vitigno in purezza.  La ricerca sugli antociani condotta dal Dr. Fulvio Mattivi, ha permesso nello specifico di mettere a punto una metodologia che permettesse di eliminare gli “errori” che in qualche modo non permettevano di avere dei dati certi per i vini con una età superiore ai sei mesi. Infatti e’ stata studiata la frazione colorante (antocianidinica) in vini sottoposti ad un lungo periodo di invecchiamento. Mattivi ha scoperto che la formazione dei pigmenti nel vino segue un percorso dipendente dalla varietà e quindi è possibile tracciare con sicurezza il Sangiovese presente in quella bottiglia. “La possibilità di analizzare l’intero set di pigmenti presenti nei vini Sangiovese – ha dichiarato Mattivi – permette di avere una migliore comprensione dei meccanismi di trasformazione dei pigmenti durante la vinificazione e l’invecchiamento, fattori essenziali da considerare per tracciare la varietà Sangiovese nel vino”. La ricerca ha permesso di individuare oltre 90 componenti e di selezionarne 17 ritenuti utili ai fini della individuazione del prodotto e quindi della tracciabilità per il brunello di Montalcino.

Ricerca – I risultati della sperimentazione, sottoposta a prova concreta con l’analisi di 180 campioni di Brunello di Montalcino 2007 prelevati in commercio, e la metodologia messa a punto sono stati pubblicati nel 2012 sulla rivista americana Journal Of Agricultural And Food Chemistry e presentati alle autorità statunitensi, primo fra tutti proprio il TTB (Alcohol and Tobacco Tax and Trade Bureau), in un incontro svoltosi il giorno 1 febbraio scorso all’Ambasciata Italiana a Washington. In tale sede sono stati presentati e discussi anche i risultati di un ricerca sull’altrettanto importante tracciabilità geografica o di origine territoriale, condotta dalla Dr.ssa Federica Camin,  responsabile della Piattaforma “Isotopi Stabili e Tracciabilità” del Centro Ricerca ed Innovazione della Fondazione Edmund Mach Istituto di San Michele all’Adige, condotta appunto sulla base degli isotopi stabili. L’utilizzo degli isotopi stabili per individuare la zona di origine come idrogeno, carbonio e ossigeno che caratterizzano l’acqua di vegetazione, è nota da molti anni e ci sono banche dati ventennali, che consentono di individuare l’origine nell’ambito di macro aree quali regioni o gruppi di regioni. La novita’ introdotta dalla ricerca della Dr.ssa Camin e’ aver provato che e’ possibile individuare l’origine di un vino anche in zone molto piu’ ristrette, come il territorio di Montalcino. I dati rilevati sul territorio di Montalcino hanno infatti uno scarto molto più contenuto e pertanto, anche attraverso un monitoraggio costante anno dopo anno nel territorio, sarebbe possibile costituire una banca dati che permetterebbe di avere dati specifici per il territorio di Montalcino. Sono in corso ricerche inoltre su isotopi pesanti caratteristici della geologia del suolo, come l’azoto e lo stronzio. Attraverso un’analisi multivariata, che tiene cioe’ conto di piu’ parametri contemporaneamente, si potrebbe raggiungere una precisione ancora maggiore nell’identificazione dell’origine del vino.

Dna – Gli altri due filoni della ricerca hanno riguardato lo sviluppo dei metodi che considerano il DNA nel vino. Secondo la Dr.ssa Stella Grando, referente per la genetica della Fondazione Edmund Mach Istituto di San Michele all’Adige, per il Sangiovese si è confermato che il metodo del DNA potrebbe essere potenzialmente il miglior metodo per la tracciabilità.  Non sono state pero’ individuate dal suo gruppo di studio, delle tecniche che permettano di ottenere risultati scientificamente riproducibili per un controllo sicuro ed esteso su tutta la produzione. Nei vini commerciali la quantità del DNA proveniente dall’uva diminuisce notevolmente nel corso della fermentazione e la sua qualità, contaminata da polifenoli e altre sostanze del vino, non è sufficiente a stabilire la purezza di un vino (se è cioè monovitigno nel caso del Brunello), ma solo se quel tipo di varietà (in questo caso sangiovese) è presente nel vino senza escludere quella di altri. Questi risultati non rispondendo quindi agli obiettivi della ricerca stessa che erano  appunto stabilire, attraverso il DNA, la purezza del Brunello. A sostegno invece della tesi favorevole al DNA è stata presentata la ricerca Wine fingerprinting, sviluppata dal team guidato da Rita Vignani, coordinatore scientifico dell’area agronomica di Serge-genomics dell’Università di Siena, Dipartimento di Scienze della Vita. “La metodologia usata è parallela a quella usata in medicina forense – ha commentato Rita Vignani – Il nostro è il primo studio che riporta che il DNA residuo presente nel vino è utilizzabile per ricostruire con probabilita’ statisticamente significativa l’identità del vitigno d’origine in vini monovarietali, mediante amplificazione di marcatori molecolari detti microsatelliti,  sia per i vini sperimentali che commerciali”. Per i vini blended e’ necessario che i vitigni complementari abbiano una concentrazione almeno del 10% per poter essere identificati, ma questa parte chiamamola quantitativa della ricerca e’ ancora in fase di studio.

Alessandra Ruggi

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