Agricoltura allo stremo e Pac è ‘cassa integrazione’. Lo sfogo di un imprenditore lucano: serve chiarezza per futuro settore

L'agricoltore Giuseppe Corrado

Giuseppe Corrado, agricoltore di Nova Siri (Mt) titolare dell’azienda agricola “Pantanello” – e lettore di agricultura.it -, ci scrive questa lettera che volentieri pubblichiamo. Un agricoltore appassionato e preoccupato, ma anche deluso, che ci parla del futuro della Pac e che certo non le manda a dire.

Da poco è stato rinnovato il Parlamento europeo, spero e mi auguro che affronti i problemi agricoli del Continente. Al momento della costituzione circa 60 anni fa con il Trattato di Roma, l’agricoltura era al centro degli interessi strategici della Comunità europea.

Successivamente, l’agricoltura è sempre più diventata un problema secondario, anzi nello scacchiere geopolitico è diventata merce di scambio, da sacrificare negli accordi commerciali (bilaterali e multilaterali) con altre esigenze (quelle industriali e dei servizi).

A ciò si è aggiunta la globalizzazione non governata e, in modo attento, ha fatto il resto la politica delle grandi catene distributive di generi alimentari, le quali detengono la quasi totalità del commercio. Sono questi i nuovi feudatari, con un modello di mezzadria alla rovescia, dove l’agricoltore produce per conto delle grandi catene, secondo tempi, modi e standard rigidamente prefissati. Salvo poi che la remunerazione è ai limiti della schiavitù.

I prezzi pagati in campagna si conoscono e tutti vedono che allo scaffale hanno un picco abnorme (anche fino a 10 volte più). La differenza non giustifica i pochi centesimi per kg pagati alla fonte.

Detto ciò, l’UE attenta al suo popolo avrebbe il dovere morale e politico di lanciare una conferenza agricola europea, con il preciso compito di dire cosa si vuole fare del settore agricolo.

Farla a livello di singoli Stati membri non avrebbe senso, perché se le scelte politiche non fossero in linea con le direttive UE, verrebbe aperta una procedura d’infrazione e tutto rimarrebbe come prima, con in più costose conseguenze per le casse dello Stato membro.

Ma chi deve fare la prima mossa? Sarebbe auspicabile che le sigle sindacali europee si facessero promotrici, ognuna per i propri canali, di chiedere in tempi brevi una conferenza agricola europea, tenendo conto della necessità di evitare l’errore di scambiare la conferenza europea con la PAC, che è ben altra cosa.

Quest’ultima la fanno i burocrati di Bruxelles e sostanzialmente gli Stati membri ci mettono la firma con piccole modifiche, sostenute dalle sindacali.

Ed i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Oggi la PAC appare come una “cassa integrazione” e, come sembra, per il post 2020 si parla di riforma ambiziosa, ma ci si accontenta della sola invarianza dei contributi, che seppur considerevoli lasciano irrisolti i problemi dell’equilibrio e del corretto funzionamento dei mercati.

Oggi è questo il problema principale che va risolto in modo deciso e definitivo. Come? Regolamentando l’ingresso di merce, se non si procede in tale direzione l’invarianza del bilancio PAC assume i contorni della regalia data ad un figlio capriccioso.

Le sindacali se hanno a cuore problemi dei loro soci devono spingere con forza per una conferenza europea. Quelle nazionali sono inutili e dimostrano che non c’è la capacità di comprendere le vere esigenze delle imprese agricole e dei lavoratori.

Basta girare per le campagne d’Italia e comprendere come c’è delusione e malcontento in primis verso le sindacali e poi pure verso l’UE.

Quest’ultima è così perché rispecchia la volontà dei cittadini. Abbiamo un’arma ed è il voto cosa che la finanza non ha. Siamo più numerosi, se votassimo bene la finanza sarebbe messa all’angolo e avrebbe il dovere di rispettarci, altrimenti ci calpesterà anche essendo minoranza nell’urna.

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