SIENA – Mancano due giorni alla applicazione dei dazi di Trump che, così rimanendo le cose, inciderebbero sul 15% su parte dell’agroalimentare italiano, ma in particolare per il settore vino, quello che pesa particolarmente su questo mercato.
Eppure c’è ancora chi spera nella cosiddetta opzione “zero-per-zero” richiesta dalla Von der Leyen al Governo americano. Si tratta di un accordo che, in attesa del testo finale e di sapere quali settori saranno “salvati” dai dazi, lascia un misto di delusione e speranza al mondo del vino (che rispetto ad altri prodotti come l’automotive e la farmaceutica rappresenta una minima parte).
Una speranza che si consumerà in queste ore e che potrebbe davvero far respirare le tante aziende italiane che negli ultimi dieci anni hanno investito sul mercato americano fino a farlo diventare uno tra i primi per l’export. Secondo l’Osservatorio Uiv, il rischio – qualora non si attivasse una riduzione dei ricavi lungo la filiera, che rappresenta comunque un danno – è di trovarsi, a fine 2026, vicino ai valori espressi nel 2019. Per Uiv (Unione Italiana Vini), ben il 76% (l’equivalente di 366 milioni di pezzi) delle 482 milioni di bottiglie tricolori spedite lo scorso anno verso gli Stati Uniti si trova in “zona rossa”, con una esposizione sul totale delle spedizioni superiore al 20%. Aree enologiche, con picchi assoluti, per il Moscato d’Asti (60%), il Pinot grigio (48%), il Chianti Classico (46%), i rossi toscani Dop al 35%, quelli piemontesi al 31% così come il Brunello di Montalcino, per chiudere con il Prosecco al 27% e il Lambrusco. In totale sono 364 milioni di bottiglie, per un valore di oltre 1,3 miliardi di euro, ovvero il 70% dell’export italiano verso gli Stati Uniti.