Infortunio sul lavoro per Covid-19. Upa Siena: «Una spada di Damocle sulla testa degli imprenditori»

La salute dei lavoratori prima di tutto ma la responsabilità penale e civile per le infezioni da coronavirus è una spada di Damocle sulla testa dei datori di lavoro che frena la tanto attesa ripartenza. L’Unione Provinciale Agricoltori di Siena palesa tutto il suo scetticismo in merito D.L. 18 del 17 marzo, convertito in legge il 24 aprile, e punta il dito contro una normativa che inquadra come infortunio sul lavoro un’eventuale infezione da Covid-19.

«La famosa fase 2, per ora più nei comunicati stampa che nella sostanza, è portata avanti dalle imprese che cercano di riavviare attività “congelate” affrontando innumerevoli problematiche, ansie e dirimenti incertezze – spiega Upa Siena -. Non occorrevano ulteriori gravami. La “guerra” fra poveri è l’ultimo dei desiderata.
Secondo la normativa in questione il datore di lavoro potrebbe essere chiamato a rispondere per l’infortunio occorso al lavoratore per non aver predisposto tutte le misure precauzionali possibili rispetto al “rischio” potenziale in ambito lavorativo (rif. Testo Unico Salute e Sicurezza sul lavoro).

Tenuto conto che la responsabilità sussiste tutte le volte che il fatto prevedibile sia ricollegabile alla violazione delle norme stesse, il datore di lavoro è tenuto ora più che mai a delineare l’effettivo rischio da Covid-19 con obblighi di adozione delle misure sull’ambiente di lavoro e sull’organizzazione aziendale, sulla gestione dei rapporti con i fornitori, sull’utilizzo di attrezzature/macchinari e di ogni strumento di lavoro, sulla manutenzione impianti (la climatizzazione su tutti). Laddove si accerti che l’inosservanza delle misure descritte sia stata causa di contagio del lavoratore, il datore di lavoro potrebbe essere chiamato a rispondere dei reati di lesioni personali gravi o gravissime ai sensi dell’art. 590 c.p, oppure di omicidio colposo ai sensi dell’art. 589 c.p. qualora al contagio sia seguita la morte, ravvisandosi una condotta omissiva nei termini di cui all’art. 40 co. 2 c.p».

«Posta la spiccata contagiosità del virus e le incertezze scientifiche che si registrano sulle diverse modalità di contagio, il primo profilo critico connesso all’infortunio da COVID19 è relativo all’accertamento del nesso causale, quindi, alla certa dimostrazione che il contagio sia avvenuto in “occasione di lavoro” – spiega il direttore di Upa Siena Gianluca Cavicchioli -. Doverosamente ricordiamo che sul sito del Ministero della Salute si riporta: «il periodo di tempo che intercorre fra il contagio e lo sviluppo dei sintomi clinici varia fra 2 e 11 giorni, fino ad un massimo di 14 giorni», senza contare poi i cosiddetti casi asintomatici. In un arco di tempo così definito, non si può escludere l’incidenza di altri fattori estranei al lavoro e connessi alla vita privata del lavoratore, né il possibile atteggiamento disinvolto del dipendente che non osserva con zelo i protocolli di prevenzione o nella propria vita privata, le misure previste dalle norme ministeriali. E’ facile immaginare che questa situazione possa invogliare percorsi di contenzioso che già di per se sono causa di costi economici e di tempo…per chi di tempo non ne ha. Ricordiamoci – conclude Cavicchioli – che l’imprenditore il lavoro non lo crea con un “decreto” ma con la propria attività ed il quotidiano rischio d’impresa. Improprio chiedere anche di far fronte a chi non vuole assumersi pari responsabilità; una continua battaglia impari con un sistema che guarda caso, è sempre penalizzante anche quando non è necessario».

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