Il ministero dell’agricoltura e sovranità alimentare e il conflitto tra sostanza e giri di parole

ROMA – Alla formazione di ogni nuovo governo è inevitabile la presenza dei detrattori. Alcuni operano riflessioni a ragion veduta, altre sterili.

L’aver chiamato il classico” Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali” (MIPAAF) con il nuovo nome “ministero dell’agricoltura e sovranità alimentare” ha generato una certa ilarità. Soprattutto per il secondo termine. Il ministero in questione annovererà, con tutta probabilità, tutte le precedenti competenze del vecchio MIPAAF. Ignoro il nome che verrà attribuito al nuovo governo: MIPAAFSA?! MASA? Boh).

Variazioni, partizioni o integrazioni di competenze, per questo e altri ministeri, sono già apparse in passato in altri governi. Ad esempio il governo “Conte I” ha istituito il Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari, Forestali e del Turismo (MiPAAFT, dal 01/06/18 al 05/09/19), che includeva le deleghe al turismo precedentemente di competenza del Ministero per i beni e le attività culturali e del Turismo (MIBACT) e pertanto ribattezzato MIBAC. Governi successivi hanno cambiato la configurazione, riportandola a MiPAAF. Analogamente, il governo Draghi ha istituito Ministero della transizione ecologica (MiTE)  con, probabilmente, tutte le precedenti deleghe del precedente Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare e alcune competenze relative all’energia.

Non conosco di preciso il sistema di attribuzione delle competenze a un ministero, né se esista una classificazione degli ambiti al punto da poterli trasferire in solido da un ministero a un altro. Probabilmente è così. Men che meno, peraltro, conosco il sistema di creazione di nuove competenze o partizione delle vecchie. Non credo si tratti di aspetti minoritari, tuttavia non opportunamente il trasferimento a un ministero, partizione  o creazione di una competenza implica un forte impatto sulla società rispetto a una configurazione in cui lo stesso ambito era gestito da altro ministero. Indubbiamente, il carico di lavoro medio di un determinato ministro può dipendere dalle sue competenze. Ad esempio, probabilmente è stato un sollievo per i ministri veder divisi gli ambiti dell’istruzione da quelli dell’università e ricerca, per quanto non opportunamente la cosa sia stata un vantaggio per la nazione.

In questa sede commenterò l’attribuzione del termine “sovranità alimentare” al vecchio MIPAAF, puntualizzando il suo significato onde fugare la sua confusione. Devo anticipare che non so se tale ministero raccoglierà tutte le deleghe del MIPAAF (in breve l’agricoltura, gli ambiti forestali e della pesca e pochi altri) o solo una parte, lasciandone alcune ad altri ministeri, come ad esempio il nuovo ministero dell’ambiente e sicurezza energetica (probabilmente corrispondente al MiTE) e quello delle infrastrutture e mobilità sostenibili (già presente nel governo Draghi e corrispondente a “Infrastrutture e Trasporti”).

La terminologia dei partiti e dei governi e il significato reale e popolare delle parole

Il partito Fratelli d’Italia (FdI) ha preponderanza di voti nella maggioranza. FdI si caratterizza da sempre per un ritorno a una certa terminologia e idee (che potremmo fare iniziare proprio 99.98631 giorni fa rispetto al giuramento dell’attuale governo). Dalla lista de ministeri posso scorgere che altri ministeri includono nel nome “sicurezza energetica”, “Made in Italy”, “merito”. I termini in se sono importanti e suggeriscono alla popolazione che quel governo voglia occuparsi in maniera specifica di quegli argomenti. Da questo punto di vista, ad esempio, trasformare il MiTe in ministero dell’ambiente e sicurezza energetica potrebbe indicare maggior attenzione alla produzione o approvvigionamento di energia (a prescindere dal modo in cui verrebbe prodotto a da chi la fornirà) che non alla sua produzione in determinati modi, ad esempio quelli a basse emissioni, o da determinati nazioni.

Per l’oggetto di questo articolo, devo quindi cercare di definire bene la “sovranità”. In particolare quella alimentare.  Il termine, come tanti altri, è molto in voga negli ultimi tempi. Dalla stessa radice è nato il termine “sovranismo” che spesso viene, sebbene erroneamente, associato alla sovranità.

La sovranità è la possibilità che un popolo decida in autonomia delle proprie sorti. In breve, la sovranità alimentare implicherebbe che un popolo possa decidere in autonomia e liberamente cosa produrre e mangiare.

Ma il diavolo si nasconde nei dettagli. Affinché la decisione sia autonoma e libera, il primo principio fondante della sovranità è che la dipendenza da altri (ad esempio uno stato estero o anche un gruppo o persona) sia assente o quantomeno minima. Da poco abbiamo colto che, in fatto energetico, l’Italia ha una sovranità carente, ossia riesce a produrre completamente in loco molta meno energia di quanto consuma. In particolare abbiamo una produzione di gas che è probabilmente un ventesimo del necessario e quindi ne importiamo la quasi totalità. Lo stesso si può dire altre fonti. Talvolta abbiamo la fonte primaria di energia (come ad esempio il sole) ma non abbiamo la fonte degli strumenti per convertirla (come ad esempio tutte le componenti dei pannelli fotovoltaici). Non avere sovranità in un ambito espone un paese ai desideri di chi gli fornisce quei materiali, soprattutto se a quei materiali non si rinuncia con facilità. Da questo punto di vista, una risposta parziale ai problemi di carente sovranità riguarda la diversificazione delle fonti, in modo da non rendersi dipendenti da un singolo attore.

Nella fattispecie, la sovranità alimentare dovrebbe comportare la possibilità di produrre in loco (se non addirittura in completa autonomia) tutti gli alimenti necessari per la popolazione. Una produzione in completa autonomia è pressappoco impossibile in Italia. Importiamo molti “mezzi tecnici”, quali ad esempio trattori, carburanti, concimi, sementi e altri materiali di propagazione, etc. in quantità ben superiori alla nostra possibilità di produrli in loco. Possiamo comunque usare questi mezzi (importati e autoprodotti) per produrre sulla nostra superficie le quantità di prodotti necessari.

Va anche specificata con molta attenzione quale sia la quantità di prodotti necessari. In particolare, abbiamo la necessità primaria di sfamarci, per cui dovremmo produrre, secondo sovranità alimentare piena, tutto ciò che serve per nutrirci. Ma abbiamo anche un settore trasformativo che esporta prodotto e supporta un indotto (che include gente che vive grazie al proprio lavoro nell’indotto). Se ci limitassimo a produrre quello il necessario per mangiare, rinunciando alla quota di produzione interna (che risponde ai principi di sovranità alimentare) o importazione (che in via teorica e approssimativa riduce la sovranità alimentare), in tal caso incrineremmo la nostra economia (limitatamente a quel settore) e con ciò il benessere di chi vive nell’indotto. Non di certo uno scenario auspicabile. Risulta già chiaro al lettore che l’acquisizione di sovranità non può passare attraverso una decrescita.

La misura della sovranità alimentare in Italia e le differenze con il sovranismo

Limitatamente alla produzione dei prodotti alimentari e non dei mezzi tecnici necessari per produrli, qual è il “grado” di sovranità alimentare in Italia? Per semplicità, i prodotti vengono raggruppati per categorie.

Dare una misura alla sovranità è complesso. Una misura associata da cui la sovranità dipende è il grado di autoapprovvigionamento, ossia quanto produciamo rispetto a quanto “consumiamo”. Attenzione al termine “consumo”.

Nei report disponibili per il settore, il termine “consumo” indica la somma di tutta la quantità usata di un prodotto, sia esso per l’alimentazione degli italiani, sia per la trasformazione e esportazione. Per questa ragione, spesso la quantità del consumo per l’alimentazione interna viene desunto da stime ad hoc (es. le vendite dei supermercati e altri canali o il consumo medio moltiplicato per la popolazione).

I dati cui accennerò vengono raccolti da vari enti, tra cui ISTAT, ISMEA, MISE e altri, anche europei. Non citerò dati puntuali, non è mio interesse in questa sede. Sono intenzionato a far comprendere l’ordine di grandezza della misure di approvvigionamento e consumo.

Inoltre vorrei sottolineare che talvolta abbiamo la disponibilità complessiva di un alimento per il nostro fabbisogno alimentare, ma preferiamo mangiare quello importato perché costa meno (data la nostra “disponibilità a pagare”) e contemporaneamente esportare quello prodotto in Italia perché troviamo maggiore disponibilità a pagare all’estero.

Ad esempio, non è infrequente che in Italia vengano venduti pomodori esteri a un prezzo relativamente basso (ad esempio 2.4 €/kg in certi momenti dell’anno) e contemporaneamente i pomodori italiani vengano esportati e venduti all’estero (a parità di lunghezza della catena del valore aggiunto) a 8-10 €/kg.

Spesso qualcuno invoca una sorta di “obbligo” per i produttori italiani a vendere prima in Italia e quel che rimane all’estero, ma quegli stessi produttori non troverebbero una disponibilità a pagare (per l’esempio appena fatto) 8-10 €/kg per quel prodotto in Italia se non in nicchie di popolazione e determinati momenti dell’anno e finirebbero per smettere di produrre, visti i loro costi. Ciò implicherebbe una riduzione di valore aggiunto acquisito, con tutti i danni che da ciò conseguono.

Obbligare a vendere in Italia non è sovranità alimentare, ma sovranismo, un atteggiamento che si allontana spesso dalla libertà produttiva e di consumo, pur invocandone i principi.

Cosa dovrebbe fare un ministero che si occupa di sovranità alimentare per perseguire questo obiettivo? Fatto salvo, come detto, che non riusciremmo comunque a produrre tutti i mezzi tecnici di cui necessitiamo, dovrebbe quantomeno favorire la produzione interna senza sfavorire opportunamente il valore aggiunto dell’indotto. In particolare, ipotizzando che il consumo per l’alimentazione degli italiani rimanga costante, se anche il consumo totale rimanesse costante, l’aumento della sovranità alimentare dovrebbe dipendere dall’aumento della produzione interna. Se invece il consumo totale aumentasse, la produzione interna dovrebbe aumentare ancora di più.

A titolo d’esempio, e ragionando al momento solo in termini di quantità, la produzione interna di frumento duro in Italia è di 4.15 Mt/anno (Mt=milioni di tonnellate, dato ISTAT, media 2013-2022 della produzione raccolta). Di tale produzione, una parte va alla produzione di seme, una piccola parte all’alimentazione animale (perché non ha caratteri qualitativi ottimali per la trasformazione), una parte va alla panificazione e la gran parte alla pastificazione.

Per la quota che va alla panificazione e trasformazione, per ogni kg di granella di frumento (la cui umidità è variabile tra 10 e 15%), possiamo ottenere circa 600-700 grammi di semola bianca (ossia senza la crusca) e con questa ottenere analoghe quantità di pasta (la pasta secca ha una umidità analoga a quella del frumento) o in alternativa circa un kg di pane (il pane ha una umidità maggiore del frumento).

Dai dati riportati da Italmopa per il 2019 e 2020 possiamo tuttavia notare che l’Italia necessità per il proprio consumo totale (alimentazione interna + export) di 5.66-5.78 Mt/anno di frumento duro

Quindi, se potessimo utilizzare tutti i 4.15 Mt per la trasformazione in sfarinati (ossia la semola), avremmo ancora necessità di circa 1.5 Mt/anno di frumento, che dovremmo importare. Per favore, tenete conto che i dati che presento sono puramente indicativi dell’ordine di grandezza, visto che le medie di consumo sono di 2 annualità e quelle di produzione di 10 annualità e spesso faccio la media tra pasta secca e fresca (una quota minoritaria, comunque). Analogamente, noterete che 5.66-4.15 non fa 1.5, ma 1.51. L’importante è notare l’ordine di grandezza, che è rispettato da una differenza forfettaria.

Non possiamo comunque usare tutto il frumento duro che produciamo solo per la trasformazione in pasta, visto che dobbiamo almeno soddisfare l’esigenza in seme. In Italia vengono seminati annualmente 1.27 Mha di frumento duro (stesse medie istat, ricordando che Mha significa milioni di ettari e che un ettaro è 10000 metri quadrati). Ipotizzando una dose media di semina di 200 kg/ha (ossia di 0.2 t/ha), una piccola frazione andrebbe mantenuta per il seme (ipotizzando solo una minima perdita nella selezione del seme, tale frazione corrisponde a circa 0.26 Mt annue).

Volendo infine stimare il consumo di pasta italiano, in media un italiano mangia 23-24 kg pasta all’anno, ossia circa 1.41 Mt/anno di pasta a scala nazionale. A ciò va aggiunta una piccola quantità di pane e prodotti da forno fatti con semola, mentre la gran parte del pane e prodotti da forno è fatto con farina (ossia lo sfarinato del frumento tenero, di cui pure siamo molto deficitari).

Potete notare che i miei (esemplificati) ricalcano i dati ISMEA decisamente più precisi dei miei, ma come dicevo, mi interessa solo far comprendere gli ordini di grandezza: https://www.ismeamercati.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/4546.

Di seguito altri dati dei quali non posso controllare le fonti (link)

In sintesi, per il solo frumento duro abbiamo una percentuale di autoapprovvigionamento (che per estensione relazioniamo al grado di sovranità alimentare di circa il 56-73%. Ciò nell’ipotesi di non avere alcun problema nell’approvvigionamento dei mezzi tecnici per produrlo. Recentemente abbiamo però visto che i problemi politici internazionali hanno fatto aumentare il prezzo di vendita dei concimi. Per far fronte a tali problemi, gli agricoltori hanno ridotto l’applicazione di concimi e con essa la resa potenziale.

 Ricaviamone alcuni scenari

Da quanto detto sopra, desumiamo alcuni aspetti chiave sull’autoapprovvigionamento e sua relazione con la sovranità:

  • se aumenta l’export, ma non la produzione interna, tale percentuale (di autoapprovvigionamento) si ridurrà, ma il valore aggiunto complessivo aumenterà, visto che esportiamo prodotti trasformati ad alto valore e importiamo granella di frumento, che ha un basso valore aggiunto rispetto a pane, pasta e prodotti da forno;
  • se aumenta la produzione interna più dell’export, tale percentuale (di autoapprovvigionamento) può aumentare e con ciò aumenta il valore aggiunto totale e anche quello della produzione nazionale;
  • se si riduce l’export e la produzione interna rimane costante, la percentuale di autoapprovvigionamento aumenta, ma si riduce il valore aggiunto acquisito in totale e con esso può ridursi anche il valore aggiunto della produzione interna.

A questo punto è opportuna una considerazione sulla qualità, perlomeno per il caso specifico della pasta. Se obbligassimo gli italiani a mangiare solo pasta di frumento italiano, il valore aggiunto del settore crollerebbe: il nostro frumento (4.15 Mt/anno) potrebbe soddisfare l’esigenza in quantità necessaria per il consumo alimentare degli italiani (1.4 Mt/anno +0.26 Mt/anno + una piccola quota per il pane di grano duro e altri usi). Purtroppo, in media, il frumento duro italiano non ha le caratteristiche necessarie per la trasformazione in pasta di buona qualità per l’esigente mercato nazionale. Usando solo pasta di frumento italiano, la percezione del sapore sarebbe diversa, con successiva riduzione di vendita. Attualmente è possibile acquistare pasta di solo grano duro italiano, ma voglio sottolineare che si tratta di una piccola frazione delle vendite e viene ottenuta con la parte migliore del frumento prodotto. Qualunque tecnico e operatore del settore auspicano un aumento della qualità media del frumento italiano per la pastificazione, ma affrontando il dibattito in maniera realistica, tale aumento è complesso, richiede lunghi tempi e soprattutto è fortemente ostacolato da alcune condizioni climatiche del sud, dove è localizzato oltre il 50% della produzione italiana di frumento duro.

Sul frumento tenero, il valore della dipendenza dall’stero è ancora più alto, visto l’autoapprovvigionamento inferiore al 40% e i consumi interni molto alti. Ogni italiano mangia in media  circa 60 kg/pane procapite annuo, ossia circa 85 kg di frumento tenero necessario per produrlo. Per 60 milioni di abitanti fanno un consumo alimentare nazionale di 5.0-5.30 Mt/anno di frumento tenero a cui vanno aggiunte le quantità necessarie per i prodotti da forno e per l’esportazione. Purtroppo ne produciamo solo 2.5-3.0 Mt/anno e quindi ne dobbiamo importare altri 5.0-5.5 Mt/anno) .

Lascio a chi legge altre combinazioni, ma credo che sia chiaro che la superficie che utilizziamo per il frumento duro e tenero (circa 1.82 Mha/anno) non è sufficiente a produrre il frumento necessario per le nostre esigenze totali (autoconsumo+export di prodotti trasformati).

Nel caso del frumento tenero+duro (ma lo stesso ragionamento può essere operato per frutta, verdura, ortaggi, carne, latte, uova, etc.) la produzione totale interna è di 7.08 Mt/anno, a fronte di un consumo (già sottostimato da me) per la sola alimentazione degli italiani di un totale di 1.4+5.15 (Mt/anno) =  6.55 Mt/anno. Ossia, la produzione interna potrebbe soddisfare solo l’alimentazione interna e la semina e ciò nell’ipotesi di mangiare pane e pasta a prescindere dalla loro qualità, anche quando sgraditi.

Saremmo teoricamente autosufficienti per le ortive, ma non per i foraggi e granelle ad uso foraggero, per le carni e il latte, per molti grassi vegetali  e altri prodotti.

Cosa può fare un ministero che si occupa di agricoltura?

Che fare quindi per aumentare la sovranità nel settore, mantenendo l’esempio del frumento? Qualcuno pensa che la risposta sia semplice. Non lo è. Le misure sono diverse. Una di quelle più importanti è stimolare di più la produzione aumentando quindi le superfici e/o le rese unitarie. Le superficie non sono tuttavia facili da aumentare, visto che la quantità di superficie agricola italiana non è infinita. Se aumentiamo la superficie a frumento, dobbiamo ridurre quella per altre specie. Recuperando terreni abbandonati avremmo un piccolo aumento di superficie, ma non opportunamente di resa, visto che spesso questi terreni sono in ambienti ben poco produttivi o nei quali i costi produttivi sono esorbitanti, il che ne scoraggia la coltivazione.

Aumentare le rese unitarie è possibile. È altrettanto complesso, ma possibile. I fattori che determinano principalmente la produzione sono ovviamente i nutrienti per le colture (possiamo apportarli con i concimi), l’acqua (irrigare è problematico, non sempre c’è disponibilità idrica, soprattutto nel centro-sud, ma possiamo utilizzare meglio quella de suolo con sistemi di agricoltura conservativa) e il benessere delle piante (perseguibile con molte tecniche, tra cui la diversificazione, l’uso di principi attivi, i genotipi con caratteri particolari di resistenza, come alcuni OGM). Ognuno di queste strategie ha diversa efficacia sia in assoluto, sia in relazione alle condizioni specifiche.

Il nuovo ministero dell’agricoltura e sovranità alimentare favorirà l’uso di tali importanti mezzi tecnici?

Effettivamente, facendoci caso, non servirebbe il termine “sovranità alimentare” per perseguire questi obiettivi. Ma spero che questo governo favorisca comunque la penetrazione di tutte queste tecnologie in agricoltura in modo da produrre di più per unità di superficie (almeno in determinate specie) e poter risparmiare, eventualmente, superficie per altri usi, come ad esempio la coltivazione di altre specie o gli usi naturali (es. i boschi) di cui pure abbiamo molto bisogno per tutelare la biodiversità naturale, che è enormemente più importante di quella coltivata. Sottolineo nuovamente il concetto: tutta la biodiversità è importante, ma quella naturale lo è molto più di quella coltivata.

Al contempo, spero che qualunque governo favorisca i rapporti con le nazioni che ci forniscono alimenti e mezzi tecnici, fatto salvo che non abbiamo necessità, per le nostre attività quotidiane, solo di alimenti. Ma perché ciò avvenga, ossia che uno stato possa importare senza che chi gli fornisce i prodotti abbia assurde pretese, c’è bisogno di serenità internazionale, di rapporti equi e diversificazione delle fonti di approvvigionamento. La sovranità dipende molto dalla pace.

Ma i motivi dell’ilarità sul termine “sovranità”?  Il mestiere del politico tra facilonerie linguistiche ed reali esigenze della nazione.

Probabilmente molti hanno scambiato il termine con “sovranismo alimentare”, che richiama una sorta di obbligo a mangiare solo prodotto ottenuto in Italia e, analogamente, un obbligo per i produttori a vendere prima in Italia (a qualunque prezzo di vendita, anche inferiore ai loro costi) e poi all’estero. Analogamente, i principi di sovranismo richiamano a una sorta di ostruzionismo legale nei confronti dei prodotti importanti. I fautori sono spesso ignari del fatto che tali misure sono solitamente regressive e portano a forti aumenti dei prezzi di vendita ma non di potere d’acquisto. Escludo chi invoca principi di sovranismo, sia mediamente disponibile a pagare un kg di pasta 5€ o un kg di pomodori 10 €.

Inoltre, grosse fette della popolazione italiana percepiscono il sistema agroalimentare come semplice e nel quale un governo interviene a cuor leggero. Piaccia o meno, non è così. Nell’ambito della disinformazione sul settore, si sentono spesso invocare (anche in ambiti con tipico “sovranismo”) addirittura “divieti” delle importazioni o ostruzionismo a determinati alimenti. Ad esempio perfino l’attuale presidentessa del consiglio Giorgia Meloni ha cavalcato tale disinformazione con la firma di una petizione contro il “cibo in provetta”, né si capisce per quale ragione si dovrebbe esser contrari agli alimenti nati da bioreattori dal momento che non c’è un obbligo a consumarli. E qualche anno fa l’allora ministro Maurizio Martina prometteva di “azzerare” l’uso di pesticidi (il cui termine corretto è “agrofarmaci”) entro il 2025. Come se la cosa fosse possibile o fondata.  Analogamente, ma in altri settori, diversi politici di destra si sono mostrati contrari ai matrimoni tra omossessuali o al diritto all’aborto e non se ne comprende la ragione (vera, genuina) di questa contrarietà dal momento che non esiste alcun obbligo a sposare una persona dello stesso sesso oppure ad abortire.

C’è ovviamente una probabilità che questo governo scambi la sovranità (già citata nel nome) con il sovranismo, perseguendo più obiettivi populistici che non le necessità nazionali. Ma quanto alta sia questa probabilità, né cosa realmente perseguirà ciascun ministero, è ben difficile da ipotizzare, dal momento che il governo non ha nemmeno un giorno di vita.

Nei confronti dell’agricoltura, i partiti di destra hanno storicamente mostrato una maggiore praticità e una minore adesione ai populismi spiccioli, per quanto, purtroppo, negli ultimi anni la disinformazione sia stata trasversale.

Personalmente, mi incuriosisce che il MIPAAF non sia andato alla Lega, che storicamente ha un certo bacino di voti nel settore, soprattutto al nord. L’assegnazione a FdI mi porta a ipotizzare che questo partito voglia investire sulla popolarità che il settore può offrire. Spero che questo investimento non sia finalizzato ad ottenere voti attraverso la disinformazione. Non può essere certo negato, tuttavia, che partiti come FdI e la Lega abbiano più volte portato avanti la disinformazione, come visto in più casi per i loro proclama su aspetti che riguardavano il covid.

Per concludere, non mi scalderei e tantomeno scandalizzerei troppo per il nome di un ministero. Scherzarci sopra può anche andar bene, ma volendo analizzare la sostanza delle loro misure, non abbiamo dati a disposizione.

Spero (ma confido poco) che le cose migliorino. Il settore dell’agricoltura è da sempre bistrattato in Italia. Auspico solo che i ministeri che si occupano di agricoltura, forestazione, pesca, ambiente ed energia e di istruzione e ricerca scientifica collaborino molto e lo facciano positivamente. Peraltro in sede europea, il farm to fork porterà molto probabilmente a una forte riduzione della sovranità (come evidenziato da diverse analisi) se applicato nella sua maniera più integrale e stati con elevata densità di popolazione, come il nostro, ne sarebbero alquanto danneggiati.

Sergio Saia – Breve CV

Sergio Saia è professore associato di Agronomia e Coltivazioni Erbacee presso il dipartimento di Scienze Veterinarie dell’Università di Pisa. Nella sua carriera, ha lavorato in diverse realtà di docenza universitaria, ricerca e produzione, tra cui come docente di Orticoltura presso l’Università Politecnica delle Marche, in aziende biologiche, come docente in corsi IFTS e corsi per i tecnici certificatori biologici, in corsi per laureati sulla statistica dei dati spazializzati e ovviamente in attività di ricerca scientifica presso enti pubblici di ricerca e università dislocati in diverse regioni (Sicilia, Puglia, Marche, Piemonte, Lazio e Toscana) venendo a contatto con molteplici realtà di ricerca e aziendali.

I suoi settori di ricerca riguardano il ruolo dell’uso del suolo sulle caratteristiche del suolo, la gestione della nutrizione vegetale in assenza di fertilizzanti di sintesi e in particolare attraverso microrganismi benefici per le piante, la gestione delle malerbe in assenza di principi attivi di sintesi, la gestione del suolo con tecniche conservative, la diversificazione in agricoltura e collabora in attività di ricerca in genetica agraria finalizzate a individuare i caratteri di competitività contro le infestanti e di resistenza ai patogeni e aumento della qualità delle colture. Si occupa inoltre di modellistica applicata ai sistemi agrari, in particolare riguardante il tenore di fertilità del suolo e i suoi determinanti agro-ambientali, di gestione della biodiversità coltivata e di salvaguardia della biodiversità vegetale.

Link istituzionali e attività di divulgazione: https://linktr.ee/sergiosaia

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